|
Pinochet (1973-1990) il corpo dei detenuti occupa uno spazio d’eccezione. Non c’è da sorprendersi, se si considera che era stata la logica stessa della repressione a porre il corpo al centro della propria strategia politica, produzione discorsiva e pratica militare. Né si tratta certo di una novità, visto che molti dei regimi repressivi che hanno fatto ricorso a retoriche massimaliste e a politiche del terrore hanno collocato il corpo nel fulcro delle loro strategie discorsive e militari; nel caso cileno, tuttavia, tale presenza ha intrapreso
un percorso specifico, che molte delle testimonianze dei sopravvissuti alla violenza hanno cercato di rappresentare in diversi modi.
In primo luogo, i discorsi del regime militare hanno posto il corpo e le sue patologie al centro della loro rete metaforica, rendendolo un’immagine perfetta per giustificare le proprie misure repressive e politiche economiche.
Per questo si parlava della necessità di «extirpar el cáncer marxista» e di un intervento chirurgico per risanare le sorti della nazione, paragonando le cupole militari a chirurghi che dovevano dissezionare il corpo del Paese per eliminare tutti gli elementi che ne impedivano il corretto funzionamento.
Questa retorica collocava i militari in una posizione di legittimazione: quella di coloro che, votati a un bene superiore, erano autorizzati a compiere un male necessario nonostante ciò implicasse, letteralmente, macchiarsi le mani di sangue e provocare dolore.
|